Il tema dell’autonomia differenziata è l’ennesima dimostrazione di come la sinistra manchi di un’idea di Paese da contrapporre a quella della destra. Quale modello di società vogliamo proporre? Quali risposte diamo ai bisogni, veri, attuali, drammatici, degli italiani, e non solo? Senza risposte a queste domande saremo sempre perdenti nei confronti di una destra aggressiva che, a parole, promette di rispondere ai bisogni delle persone: sicurezza, stabilità, certezza nel futuro.
Il cuore di questo intervento è che, per citare le parole di Massimo D’Alema, “La sinistra si è trovata disorientata di fronte a una globalizzazione che ha acuito le disuguaglianze” e, aggiungo io, adesso deve trovare delle risposte “di sinistra”, coerenti con i propri valori, che sono gli stessi scritti nella Costituzione e in circa 200 anni di storia di lotte e conquiste sociali e civili. Ed è proprio qui che il tema dell’autonomia regionale entra nel discorso, sia perché ci indica una possibile via di uscita, sia perché, riflettendo sulle reazioni che ha sin qui avuto la sinistra italiana, ci rendiamo conto della nostra inadeguatezza di prospettive.
Va subito detto che il progetto di Autonomia Regionale differenziata che è sulla scena politica da ormai oltre un anno, quello che la Lega vorrebbe attuare in gran segreto, all’oscuro o quasi degli organi rappresentativi, stravolgendo ogni corretta prassi parlamentare, va rifiutato decisamente, e interamente. Il problema è però quello di non limitarsi a contrastare il progetto leghista per lasciare tutto com’è, ma occorre dare una risposta da sinistra su questo tema, ricordandoci come il tema dell’autonomia, anzi, delle autonomie, è fortemente legato alla migliore tradizione della sinistra, è da sempre stato un tema di libertà e di emancipazione dei popoli.
Cominciamo col dire che chi sostiene la proposta di autonomia oggi in discussione non è solo il “partito della Padania” di qualche anno addietro. E’ presente nel Nord del Paese, trasversale a tutti i partiti, compreso il Pd, una corrente di opinione che ritiene politicamente accettabile immaginare una macroregione del Nord che si liberi dalla cosiddetta zavorra del Sud e possa competere in Europa. Ne è testimonianza la posizione dell’Emilia Romagna, che, a prescindere dai contenuti differenti dalle proposte di Veneto e Lombardia, sta adottando la stessa procedura opaca, priva di confronto, nelle segrete stanze del governo leghista, per portare avanti la proposta di autonomia regionale differenziata. Io definisco questa corrente d’opinione “il partito del Nord”.
L’idea di questo partito è che l’Italia descritta dalla Costituzione abbia fallito, e che quindi, almeno, si salvi la parte più forte e produttiva del Paese mettendola in grado di competere con le altre economie, secondo un modello economico “aggressivo e vincente”, eliminando, se necessario, le garanzie e i diritti che l’Italia ha garantito in questo dopoguerra. Questa posizione ha però avuto la possibilità di diventare egemone proprio perché non c’è stata una differente proposta a contrastarla. Se nel profondo Nord la Lega è votata anche da moltissimi lavoratori, tantissimi iscritti alla CGIL, se in gran parte dell’elettorato del PD (e non solo) delle regioni del Nord c’è una neanche tanto nascosta adesione al “partito del Nord”, è perché non funziona più quel modello di stato centrale che, fino a un certo momento storico, ha garantito una crescita, un benessere, una sicurezza nelle prospettive di vita a tutti gli italiani, insieme.
Lo stato ha smobilitato. E con esso le tradizionali forze politiche che del ruolo attivo dello stato nell’economia facevano il centro del proprio progetto politico. Di fronte a questa debacle la sinistra ha reagito in due modi, opposti, e per certi versi frutto della stessa mancanza di strategia. Abbiamo visto, per un verso, l’involuzione di quella che fu la più grande forza della sinistra europea, rassegnatasi a essere mero gestore dell’esistente, cercando addirittura di competere con la destra sul suo stesso terreno. Una delle tante riprove di ciò sta proprio nella genesi della sciagurata riforma del titolo V della Costituzione, voluta per contendere alla Lega gli elettori nel nord Italia. Dall’altro verso la sinistra radicale ha invece avuto una reazione di sostanziale immobilità, esprimendo, su questo argomento, un rifiuto a priori del concetto di autonomia a tutti i livelli, dalla scuola all’organizzazione dello stato, limitandosi a riproporre la conservazione dello status quo. La sinistra radicale ha confuso la giusta difesa dei valori costituzionali, con la difesa delle forme di organizzazione dello stato edificate nella prima Repubblica.
E allora cosa si chiede a una sinistra socialista moderna, che voglia porsi l’obiettivo di contrastare tutto questo? Si chiede coraggio e intelligenza. Il coraggio di continuare a difendere i principi scritti nella Costituzione, di continuare a lottare per l’uguaglianza, per un welfare universale, per la libertà degli individui, per un mondo in pace, libero da guerre e nel quale le persone non siano costrette a fuggire dalle proprie terre devastate da conflitti o da catastrofi ambientali. L’intelligenza di capire in che modo perseguire quegli obiettivi nelle mutate condizioni di contesto. Da questo punto di vista il concetto di autonomia assume un ruolo importantissimo. Il più importante riferimento all’autonomia lo troviamo nell’articolo 5, che dice: La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento. L’autonomia disegnata dall’articolo 5 è la negazione della globalizzazione.
Seguendo la nostra Costituzione, se volessimo combinare il secondo comma dell’articolo 3 con l’articolo 5, potremmo immaginare uno stato forte nel sancire e difendere i principi generali indicati dalla Costituzione, garantire i servizi universali (energia, acqua, salute, trasporti, ambiente, difesa della legalità) in modo uguale per tutti e su tutto il territorio. Uno stato che fornisca un substrato culturale comune a tutti gli italiani, con una scuola pubblica, libera da qualsiasi condizionamento politico, e da qualsiasi ricatto economico che la renda subalterna alle aziende operanti nel territorio. E che lasci poi alle comunità locali la libertà di autogestirsi, senza strangolarle con una burocrazia opprimente e inutile.
L’autonomia di cui si parla nell’articolo 5 è quella per cui la sinistra ha lottato per anni: è quella che portò, negli anni 70, a costituire i comitati dei quartieri, gli organi collegiali nelle scuole, a volere i consigli di fabbrica, a creare organi di governo del territorio per difendere parchi e comunità montane. E’ l’autonomia dei corpi intermedi. E’ l’autonomia delle piccole realtà in cui vive e lavora la gente, gestite da amministratori vicini e controllabili. Questa autonomia si può attuare solo in uno stato comune, che, secondo il principio di solidarietà scritto nell’articolo 2 della Costituzione, raccoglie e redistribuisce risorse, aiutando le aree svantaggiate, investendo in grandi opere pubbliche e garantendo alle autonomie locali ampia libertà organizzativa, risorse adeguate, e, ovviamente, un controllo di legalità degno di questo nome, per evitare la degenerazione del regionalismo criminale che abbiamo conosciuto in questi anni.
Questa autonomia è l’unica che può mobilitare territori, riattivare la partecipazione e la solidarietà fra le persone, opporsi ai poteri forti. L’autonomia non ha nulla a che fare con il progetto del Partito del Nord, che vorrebbe un potere centralistico a livello regionale, distante dai cittadini, forte di un meccanismo di governo maggioritario e poco rappresentativo, che limiterebbe e assoggetterebbe nel suo territorio ogni forma di autonomia. Non è un caso che il sindaco di Milano, Sala, si sia espresso decisamente contro questo progetto che limiterebbe all’inverosimile l’autonomia dei comuni.
Che quella del Partito del Nord sia una falsa autonomia lo ha capito anche il mondo della scuola. Le scuole hanno adesso un ampio margine di autonomia, garantito dalle istituzioni nazionali, che con la proposta in discussione sparirebbe, asservendo le scuole al controllo politico regionale. L’autonomia che deve perseguire una sinistra moderna non è l’autonomia del più forte che trattiene per sé tutto quello che può, ma è l’autonomia di chi capisce che in questo mondo siamo tutti interdipendenti. Tutti liberi, ma consapevoli che la nostra libertà è garantita proprio dallo stare insieme, sotto un’unica bandiera, mettendo in comune le forze. La battaglia non è, e non deve essere, “contro l’autonomia”, ma contro chi vuole togliere ai popoli i propri diritti, le proprie sicurezze, la propria libertà. Se sapremo dire questo riusciremo a proporre agli italiani un nuovo modello di Paese per il quale credere e lottare.